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un volume e, nella pagina aperta, esattamente sotto i suoi occhi, ecco la soluzione ai nostri dilemmi: le iniziali intrecciate sono “J Do f”, fin troppo semplici per essere lette in Juan Do fecit. Ma si diceva delle altre concordanze. E allora, alla luce di questo ritrovamento, anche altre scritte finora di difficile lettura che appaiono sulle sue tele sembrano riconducibili a firme e monogrammi del nostro pittore. Così è probabilmente da leggere la scritta, in forma corsiva, nel Vecchio in meditazione con cartiglio in mano (collezione privata; in De Vito, op. cit. p. 17-18) e nel Filosofo stoico del Kunsthistorisches Museum di Vienna, in meditazione sul teschio e con i soliti fogli di carta sotto gli occhi. Ma anche altre osservazioni, a ulteriore sviluppo di quelle acute formulate da De Vito, confermano che abbiamo centrato la soluzione al problema. Dalle poche notizie pervenuteci sappiamo che Juan Do, di circa 22 anni, nel 1626 sposa Grazia De Rosa, figlia acquisita di Filippo Vitale, importante pittore napoletano di suggestione caravaggesca, avendo come testimoni niente di meno che Giuseppe Ribera e Battistello Caracciolo, vale a dire la crema, che dico, l’apice della cultura figurativa napoletana d’avanguardia del primo Seicento. Sarà un caso, ma che attorno a un giovane di belle speranze, per di più spagnolo d’origine, dichiarandosi originario di Jativa, si concentrino i tre artisti più importanti e innovativi del momento non deve essere episodio da sottovalutare. Non sarà che il nostro Juan colpisse già la loro attenzione per la straordinarietà delle sue tele? Il De Dominici, scrivendo più di un secolo dopo lo ricorda per la diffusione delle mezze figure di filosofi e di San Gerolamo, “che nel maneggio del colore e nell’impasto era tutt’uno”, caratteristiche ben evidenti nella produzione del pittore. Infatti, la sua origine spagnola, a suo tempo sostenuta da Raffaello Causa, traspare da molti aspetti tecnici e stilistici. L’impasto pittorico denso e compatto, carico di colore e grumoso ha più il sapore iberico che napoletano. Lo stesso vale per la scelta delle figure in penombra, in una tipologia fisica più vicina a Velazquez e Zurbaran. Ma soprattutto la profonda cultura filosofica e la religione che sembrano corrispondere al pittore fanno confermare l’identificazione. La sua professione ebraica, ipotizzata dal De Vito, fu forse il motivo della sua fuga (o cacciata?) dalla Spagna e, perché no, anche del suo isolamento a Napoli (“marrani” erano detti i convertiti per necessità). Poche se non nulle le committenze pubbliche, quasi inesistenti i documenti sul suo conto. Col dubbio che sia stato costretto a
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